Caro Achille,
Eccoci, partiamo con le domande.

1 – Francia, Italia, Europa. Oggi, ieri, domani. Tu hai avuto esperienze all’estero in anni in cui ad andare fuori Italia erano in pochi. Cosa le accomuna da un punto di vista professionale e cosa le divide oggi rispetto a ieri? Chi è il collega che maggiormente ti ha trasmesso entusiasmo e passione in Italia e all’estero e perché?

In un’epoca in cui la durata delle Scuole di Specializzazione era di due anni (sono specialista in Cardiologia e Radiologia) e in cui le problematiche di esercitare la propria passione professionale non era semplice, devo confessare che nel mio intimo mi definisco neuroradiologo “che ha colto un’opportunità”!
Per motivi pratici facevo turni di “guardia” in una Casa di Cura napoletana, in cui esercitava la sua attività libero-professionale il prof. F. Castellano, neurochirurgo di chiara fama e iniziatore della neurochirurgia ospedaliera a Napoli, mentre la Radiologia era affidata al prof A. Calabrò da poco rientrato a Napoli dalla sua formazione parigina . Fu principalmente il prof. Castellano, che mi onorava della sua considerazione e conosceva la mia precarietà, ad invitarmi, anzi a stimolarmi, d’accordo con Calabrò, ad occupare un posto di assistente neuroradiologo, cammino che decisi di intraprendere vedendo in esso non solo aspetti pratici ma anche un mondo culturale per me nuovo ma pieno di interesse, come la vita dei tanti anni successivi ed i Maestri, i colleghi, gli amici che ho conosciuto e frequentato mi hanno poi confermato.
Eravamo all’inizio della seconda metà degli anni ’60; l’encefalografia frazionata e l’angiografia carotidea per puntura diretta, così come la mielo o la radicolografia con contrasto, erano le armi quotidiane del mestiere. La correttezza procedurale nella tecnica di esame, la cura nella esecuzione di una buona rappresentazione dei rilievi morfologici, l’affiatamento operativo con l’operatore tecnico, l’anestesista, l’infermiere, etc. costituivano elementi fondamentali per un buon risultato diagnostico e venivano personalmente trasmessi, verificati, controllati dal Primario che custodiva in sé e trasmetteva il rigore dell’insegnamento parigino. Pur nella semplicità delle attrezzature allora disponibili, si respirava un’aria di novità operativa, di rigore professionale, di apertura al futuro, quasi la coscienza di avviarsi a vivere un’evoluzione tecnologica continua ed un avanzamento graduale e progressivo nelle conoscenze di quest’anatomia “in vivo” fino ad allora pressoché totalmente inaccessibile.
In breve tempo mi divennero familiari quasi tutti i nomi del gruppo del Saint Anne nel quale si era formata quella generazione di neuroradiologi, divenuti tutti Primari in vari ospedali francesi e non solo, così come i nomi di Maestri quali M. David (neurochirurgo del St Anne) e H. Fischgold (neuroradiologo alla Pitié) che venivano citati sempre con rispettoso riguardo. Nel settembre 1969 ebbi il primo contatto con il mondo neuroradiologico europeo partecipando al “Primo colloquio europeo di neuroradiologia” a Colmar dove fu creata la “Società Europea di Neuroradiologia”. Iniziai allora a frequentare per brevi periodi, ma a più riprese, il reparto della Pitié diretto da J. Metzger, molto amico di Calabrò, dove si facevano pressoché le stesse cose ma purtroppo constatavo, rispetto a noi, la maggiore velocità di aggiornamento tecnologico delle loro procedure grazie alla solerzia amministrativa di quell’Ospedale.
Intanto una nuova era si affacciava all’orizzonte! Al Congresso di Neuroradiologia di Bologna dell’agosto 1972 J. Bull presentò “The major breakthrough in soft tissue of the brain” (la TAC). Nel giugno 1973, in un convegno italo-francese organizzato a Capri da Calabrò e Metzger fu invitato anche Bull per presentare nuovamente immagini TAC e sensibilizzare anche qui ambienti professionali e amministrativi. Alla fine di quello stesso anno passai all’ospedale per bambini “Santobono” come aiuto neuroradiologo della Divisione di Neurochirurgia diretta da A. Ambrosio (allievo di Castellano) continuando inizialmente ad eseguire gli esami tradizionali nel precedente Ospedale. Il Primario del Santobono si mosse molto per avere anche per noi una TAC ma l’attesa durò circa tre anni. In quel periodo fu preziosa la disponibilità e la professionalità dell’amico U. Salvolini che accettò di eseguire nel suo reparto esami TAC di bambini più delicati che periodicamente portavamo da Napoli in ambulanza rientrando poi nella stessa giornata. Fu quella un’esperienza fantastica di interesse professionale e di grande umanità che annullavano il disagio connesso e di cui gli sarò sempre grato!
Avuta l’attrezzatura tecnica ebbi modo di raccogliere, rimanendo comunque in contatto con l’ambiente della Pitié, una grande quantità di materiale in patologie infantili e neonatali per cui si pubblicò insieme un volume sulle “Pathologies malformatives et neonatales”. Intanto, disponendo anche di uno stratigrafo a movimento complesso mi avviai allo studio della base cranica e della formazioni dell’orecchio andando a conoscerne i segreti presso la Fondazione “Rotschild” di Parigi nel Servizio diretto da J. Vignaud che costituiva riferimento mondiale della Radiologia di testa e collo; era Jaqueline un grande maestro che non faceva pesare la sua superiorità, sempre disponibile con semplicità come scrive Salvolini nel ricordo che ne fa dopo la morte. Frequentai periodicamente e per lungo tempo quell’ambiente imparando molto sull’argomento; già all’inizio del 1979 pubblicammo sul J. De Radiol. un articolo sulla comparazione tra tomografia pluridirezionale e tomodensitometria (TDM come i francesi chiamavano la TAC) nello studio della base cranica. Altra persona che mi ha affascinato per la sua cultura, la simpatia e la semplicità caratteriale è stato certamente P. Rabischong, che con la bellezza delle sue immagini e la eleganza delle sue parole rendeva “viva” l’anatomia, e che ho conosciuto anche per il suo “progetto uomo” (da me non condiviso!) nella sua personale interpretazione del fenomeno evolutivo della specie.
Cosa ho imparato in quegli anni? Certo di tutti ho apprezzato il rigore professionale, l’onestà intellettuale pur nella fermezza del carattere, la semplicità dei rapporti interpersonali, l’efficienza della pubblica amministrazione (non dimentichiamo che in Francia esiste una Scuola di Amministrazione Pubblica –ENA- dove si trasmettono esperienze e valori di due secoli di Stato-nazione che creano non solo la classe dirigente del Paese ma indirizzano anche la dirigenza pubblica delle tante amministrazioni periferiche!).
Dall’inizio degli anni ’80 ho vissuto l’esperienza primariale all’ospedale di Salerno, mantenendo i rapporti personali italiani e stranieri e continuando, anzi incrementando la frequentazione di corsi e congressi. Nel 1991-2, rientrato all’ospedale Cardarelli di Napoli, ho trovato un valido gruppo di neuroradiologi già formati e bravi e, conservando i miei rapporti esterni, ho cercato di spendere tutte le energie per tenere il reparto all’altezza dei tempi.

2 – Hai vissuto sia l’epopea della TC che quella della RM. Descrivimi quegli anni.

L’introduzione della TC e poi della RM ed il loro continuo avanzamento tecnologico nel tempo hanno reso certamente agevole l’accesso diagnostico alla patologia endocranica e spinale tanto da consentire a chiunque faccia diagnostica per immagini il riconoscimento delle lesioni più comuni. Pertanto, più che descrivere quegli anni mi piace oggi esprimere alcune considerazioni che ne scaturiscono. Tali eventi, lungi dall’esaurire le motivazioni istituzionali della Neuroradiologia, ne hanno notevolmente allargato lo spazio operativo verso una differente e più evoluta concettualità dell’atto specialistico che va oltre la rappresentazione morfologica dell’alterazione. In questo senso la Neuroradiologia rimane viva come disciplina aperta ad un percorso che non ha limiti, del quale devono comunque farsi artefici convinti gli stessi operatori per costruire un futuro sempre culturalmente avanzato ed operativamente vantaggioso; e così i Centri di Neuroradiologia, a qualunque livello, non devono perdere la loro caratterizzazione culturale, sia in campo diagnostico che interventistico, ma essere attivi nel promuovere lo studio e la ricerca formando nuove leve, mantenere un adeguato standard tecnologico, sviluppare la collaborazione con le specialità affini.
In entrambi i campi le tecniche evolveranno, quelle attuali saranno sostituite da altre più avanzate; sia che si tratti di “Neuroscienze” che di “Interventistica” esse rimarranno fondamentali ma il neuroradiologo non dovrà limitare la sua espressione professionale alla loro sola applicazione e rimanere così schiavo della tecnologia; dovrà continuare a sentirsi sempre parte integrante di una branca della Medicina, non “facendo” il medico ma “essendo“ medico!

3 – La famiglia quanto è stata importante nel tuo percorso professionale?

La famiglia, che considero reale fucina dell’uomo e pilastro della società, è stata per me preziosa, sia quella natale e sia quella che mi sono formato. Ai genitori, soprattutto a mia madre sempre ligia al suo dovere di insegnante e rimasta precocemente sola per la scomparsa di mio padre, devo l’acquisizione di un marcato senso di responsabilità che mi è stato inculcato con l’esempio quotidiano, con la fermezza del suo carattere, con lo spirito di sacrificio che gli anni ’40 e ’50 imponevano quasi a tutti gli adulti di allora. A mia moglie, compagna inseparabile di vita dai primi anni della mia attività professionale, devo il riconoscimento di avermi affrancato, nonostante il suo dovere professionale, da gran parte degli impegni e degli oneri familiari con la sua capacità organizzativa, la sua sicurezza decisionale, il rigore educativo verso i figli, la sua lealtà comportamentale ed il suo amore per tutti noi. Ai figli, oggi adulti maturi, devo il ringraziamento per l’affetto che, pur impegnati o lontani, ci dimostrano ancora quotidianamente. Tutto ciò ha in passato costituito per me libertà di movimento ampia e sostanzialmente priva di limiti, ansie o preoccupazioni sia nella realizzazione pratica del mio lavoro che degli interessi culturali; anzi ha costituito una spinta a non fermarmi ma ad andare sempre avanti nelle cose che maggiormente mi interessavano!

4 – Tu sei stato sempre molto rigoroso prima con te stesso e poi con gli altri.
Con la tua esperienza di uomo diversamente giovane, come giudichi la gioventù di oggi?

Mi definisci rigoroso, parola che si presta a differenti interpretazioni, alcune positive (prima fra tutte la coerenza con se stessi), altre negative (rigidità, inflessibilità, fiscalità, etc.); mi attribuisco il primo significato visto che dici che lo sono stato prima con me stesso! L’uomo si costruisce come persona, che è sintesi di materia (corpo) e forma (spirito) sulla base del suo patrimonio genetico, dell’ambiente sociale (culturale) in cui si sviluppa e vive, di esperienze individuali. Dall’insieme di questi fattori ognuno assorbe e costruisce dei valori attraverso un processo che è atto cognitivo ma investe altresì la sfera emotiva; natura e cultura infatti nei valori si fondono in un’unica interpretazione dell’essere, del dover essere e del voler essere dell’individuo. Si troverà poi a confrontarsi con i valori in tutte le dimensioni della realtà della vita sia sul piano individuale che su quello socio-culturale; la vita quotidiana infatti, nelle sue mille espressioni, impone a tutti di compiere scelte comportamentali che non possiamo demandare al caso né al puro arbitrio ma dobbiamo far rientrare in una visione complessiva della persona che siamo nella nostra sfera morale, intellettuale, spirituale, relazionale, e della realtà umana (locale) in cui operiamo. Queste cose una volta si formavano principalmente nel “rigore” della famiglia e nella “serietà” dell’educazione (della scuola a tutti i livelli) che mirava a formare la coscienza dei giovani attraverso l’insegnamento alla conquista della libertà e del criterio di verità, rendendoli consapevoli delle proprie responsabilità. Oggi si assiste ad una “aleatorietà” dei valori ed insieme alla perdita delle radici e alla caduta di fiducia verso il futuro. Questa società “postmoderna”, “liquida”, etc., comunque dell’apparire e del consumare, si offre a molte e complesse considerazioni e valutazioni; esprimo qui in sintesi estrema il mio pensiero attuale, che non è giudizio ma sola constatazione, e cioè che mi sembra essere di fronte non al consueto salto tra una generazione e l’altra ma ad un vero cambiamento di epoca sul cui futuro nessuno può oggi dire ma per il quale ognuno può invece operare!

5 – Hai avuto sempre una invidiabile forma fisica, la tua passione per lo sci è nota così come per la vela ma hai mai avuto paura in una discesa o in una traversata?

I presupposti per la risposta a questa domanda risiedono nella soggettività-unicità della persona che è ognuno di noi, legati al suo “sentire” più che al “pensare”. Mi è sempre piaciuto tenermi fisicamente attivo facendo corsa e lunghe camminate o nuotate, mai agonismo o giochi di squadra; provavo in tal modo benessere fisico e nella mente si aprivano spazi immensi ed ampi orizzonti liberando lo spirito. E’ questo che mi ha portato ad amare lo sci e la vela perché con essi si realizza contatto diretto e profondo con la natura che non ha spazio né tempo, con i suoi colori, le sue forme, i suoi silenzi e la sua forza che evoca bellezza ed incute rispetto generando emozioni che sono fuori dalla vita quotidiana. Chi sciando da solo o in piccolo gruppetto, in una giornata di cielo azzurro, con alberi coperti di neve fresca, con il Sassolungo più vicino e lo Sciliar più lontano (tanto per parlare di posti noti a molti amici neuroradiologi) non si è sentito parte integrante di quella natura, immerso in essa in un’atmosfera di serenità e di pace in se stessi e verso il mondo?
E così accade per la vela! L’ambiente è diverso, manca la calma della montagna, anche in piena bonaccia si è sempre in movimento, ma il rapporto con la natura è in sostanza lo stesso. I colori del tramonto di una bella giornata con il rosso del sole che si immerge nel mare e diviene arancione per trasformarsi ancora fino al buio, l’immensità del cielo notturno ed il brillare delle stelle, generano le stesse emozioni appena dette per lo sci; ma anche fare l’andatura, regolare le vele, essere in relazione con altri e rispettare regole dettate dalla convivenza e dalle contingenze, infine essere contemporaneamente sia in compagnia che in solitudine, generano un non comune piacere alla vita. Sia per lo sci che per la vela non ho mai avuto vera paura né per fortuna seri incidenti (è tuttavia da sapere che in barca andavo sempre con amici molto bravi ed esperti; una volta ad es. siamo prudentemente rimasti fermi per tre giorni a Portovecchio in Corsica per il cattivo tempo!). Ora ho smesso di sciare (per saggezza anagrafica) e le uscite in barca sono locali e si limitano alle ore diurne. Mi restano comunque di tutto ricordi bellissimi!

6 – So che sei un ottimo cuoco, scrivici una ricetta!

Questa è la domanda che più mi imbarazza ma non posso non rispondere alla tua specifica richiesta! Amo i cibi genuini e soprattutto semplici nei quali si percepiscono ancora i sapori e gli odori della natura e dove i piccoli dettagli fanno la differenza. Ho letto una volta, non ricordo dove, che l’appetito è il senso primordiale della vita, l’arte della cucina è la risposta culturale dell’uomo; ne deduco che è figlia delle sensibilità sociali e individuali.
La mia piccola esperienza si limita a qualche piatto di mare. Parliamo qui dei “paccheri” ai frutti di mare di cui riporto la mia interpretazione per 4-5 persone: paccheri 500gr.; vongole 500gr.; cozze 300gr.; cannolicchi (se si trovano) 200gr.; gamberetti 200gr.; pomodori “datterino” 250-300gr.
Le vongole, se non già fatto in pescheria, vanno “spurgate” (eliminata la sabbia) tenendole per qualche ora in acqua con sale (all’incirca un cucchiaio da cucina per litro) in ambiente fresco. Poi vongole e cannolicchi vanno brevemente sciacquati in acqua fresca corrente. La pulizia delle cozze è più complessa; sempre sotto acqua corrente lavarle, staccare la “barbetta” e possibilmente le incrostazioni, quindi strofinarle energicamente con una spazzola rigida. Ai gamberi bisogna staccare la testa alla base e metterla da parte dopo averne tagliata con forbice la parte più anteriore, compresi gli occhi; sarà poi facile sgusciarne il corpo delicatamente e completamente con le mani e “sfilare” dal dorso il “filetto” scuro che è l’intestino e che, se il prodotto è fresco, viene via intero o quasi (nel gambero surgelato si frammenta!).
Vongole, cozze, cannolicchi vanno messe al fuoco in singole pentole aspettandone la completa apertura (se qualche guscio non si è aperto va immediatamente rimosso); si procede poi a separarne il frutto mettendolo da parte e lasciando in ogni pentola il suo liquido. In un capace tegame (meglio se in “cuore di pietra” che consente una più uniforme distribuzione del calore) si versano 150-180 ml. di olio extra vergine di oliva e si fanno soffriggere due spicchi di aglio rimuovendoli appena imbionditi. Si mettono nell’olio, in una piccola zona, le teste dei gamberetti e dopo qualche minuto, nella restante parte, i pomodorini tagliati in piccoli pezzi; scaldato bene il tutto, le teste vengono moderatamente schiacciate facendone fuoriuscire il succo e rimosse. Poi si versano i gamberetti, i frutti di mare ed i relativi liquidi tenuti da parte facendo attenzione ad evitare eventuali piccoli residui di sabbia; dopo alcuni minuti si interrompe mettendo prezzemolo finemente tritato. La pasta va cotta con poco sale scolandola 4-5- minuti prima della sua completa cottura e versandola immediatamente nel tegame dove sono i frutti di mare con il loro abbondante liquido nel quale essa verrà continuamente rimescolata facendone abilmente coincidere la cottura “al dente” con il giusto prosciugamento del sugo.
Allora tutto sarà pronto per essere servito! E’ comunque opportuno sapere che: i paccheri di Gragnano sono il top della produzione ma anche quelli delle migliori tra le marche più diffuse sono ottimi. Le vongole migliori sono quelle “veraci”; quelle coltivate, di più frequente reperimento e più economiche, sono comunque buone. Le cozze devono essere estratte da confezioni sigillate, avere il guscio integro e brillante, e non tendere ad aprirsi. I gamberetti (quelli rosa –del tirreno- o rossi –siciliani “di Mazara”) devono avere la testa ben aderente al corpo e soprattutto priva di evidenti zone nere (entrambe le cose segno di freschezza). Il datterino è preferibile perché ha buccia sottile e polpa gradevolmente dolce.

7 – Il tuo rapporto con l’arte come è, quale il periodo che privilegi? e con la musica come te la sei cavata? che musica preferisci?

Dell’arte in genere ho una conoscenza limitata; ma essa, espressa nella forma come nella scultura, o nello spazio cromatico come nella pittura, o nella creazione poetica, o in mille altri modi, è comunque una sorta di linguaggio universale, un insieme di funzione cognitiva ed emotiva, che non ha confini temporali o spaziali ed è pertanto accessibile a tutti, senza differenza di lingue, costumi, cultura poiché non comunica significati definiti trasmettendo invece stati d’animo, sentimenti. E’ per questo che il vero significato e valore intrinseco dell’opera d’arte sono dati dall’esperienza interiore che l’ha generata e dall’emozione che riescono a sviluppare nell’osservatore.
Senza nulla togliere alla maestosità e potenza espressiva di opere pittoriche e scultoree del nostro Rinascimento è certo che in pittura colpiscono maggiormente la mia sensibilità le opere degli impressionisti e di pochi altri, come i macchiaioli, che dipingono la realtà quale essa appare loro in quel momento, semplice, priva di toni solenni; sono le sensazioni (impressioni) che diventano contenuto e messaggio principale dell’opera, generate dalle sfumature e dai contrasti di colori e di luci del soggetto e dell’intero paesaggio. Non posso non sentirmi affascinato dalla dimensione immersiva delle ninfee di Monet, o dal fascino scompigliato della sua “signora con ombrello” nelle tante versioni.
La musica poi, mi sembra vestirsi di ancora maggiori significati poiché assorbe maggiormente (totalmente) l’attenzione trasportando in mondi immaginari e fantastici e generando “brividi musicali”, stati d’animo soggettivi e personali che trascendono la realtà; le emozioni indotte dalla musica cui si aggiunge la relativa interpretazione cognitiva costituiscono di fatto la base per l’apprezzamento estetico di un brano musicale. E’ forse per questo suo modo di essere che la musica porta al sublime e può aprirsi al divino! Il mio “orecchio musicale” è alquanto scadente ma non mi impedisce di emozionarmi all’ascolto dell’aria sulla IV corda o dell’adagio del secondo concerto brandeburghese di Bach, del “canone” di Pachelbel, del valzer di Shostakovich e di tanti, tanti altri!

8 – Che rapporti vedi tra scienza e fede? 

Non ho mai visto conflittualità tra le due ma alcuni anni fa avrei potuto dare alla tua domanda una risposta solo generica e piuttosto superficiale. Al contrario, nella senilità, che non è di fatto rinuncia ma può fare rima con serenità, il tempo scorre più lentamente lasciando al pensiero molto spazio per cogliere nelle tante espressioni della vita significati prima non visti perché la corsa di un tempo si trasforma in lento cammino rendendo ora possibile cogliere nel meno che si fa il più che in esso è contenuto! Tenterò una estrema sintesi di quanto ho raccolto, e accolto, al riguardo. Accade spesso che nel parlare corrente le parole fede e religione vengano usate come sinonimi ma esiste tra loro una differenza semantica perché la fede è la libera adesione ad un qualcosa, ad un messaggio, ad un’idea non determinata da evidenza razionale ma sostenuta da intima, libera convinzione o fondata sull’autorità altrui; la religione può definirsi un complesso di credenze, sentimenti, comportamenti, norme etiche, atti attraverso i quali l’individuo si relaziona con il divino esprimendoli in fenomeni più o meno complessi, correlati ai momenti culturali in cui si sviluppano e di cui subiscono l’influenza. Comunque, sia la fede che la religiosità, intesa questa non come pratica religiosa ma come “senso” religioso, esprimono un modo di essere e di manifestarsi della spiritualità spontanea e naturale che è patrimonio di ognuno, radicata nelle fondamenta biologiche della sua natura; è l’uomo che, divenuto nel paleolitico superiore sapiens moderno per aver acquisito in maniera completa coscienza di sé, linguaggio articolato, capacità simbolica, si spinge alla ricerca della pienezza dell’essere varcando i confini dell’ignoto, verso un ordine superiore di conoscenze e di valori. E’ infatti questo essere “umani” che, a parte gli altri aspetti, genera in noi la “curiosità”, quel desiderio di significati che ci spinge a guardare sempre più nel profondo del nostro essere e ad interrogarci sulla natura dell’universo nel quale siamo immersi e sul “chi siamo noi”, cioè sul posto-ruolo che in esso occupiamo. A questa domanda di sapere esaustivo i nostri lontani antenati hanno dato risposta con le visioni mitiche, le interpretazioni simboliche, le rappresentazioni rituali delle religioni placando così, nel modo congeniale alla cultura del tempo e del luogo, la loro ansia esistenziale; ed è proprio qui che alla luce delle attuali conoscenze si innesta il grande quesito se cosmo, vita, coscienza siano la esclusiva manifestazione di forze intrinseche del complesso energia-materia o se vi sia una unica sorgente immateriale da cui tutto proviene e l’uomo è stato voluto da un Dio Creatore tal quale egli è.
Religione e fede si differenziano dalla scienza che è invece sapere fondato su conoscenza documentata e ragionata. Il costituirsi nei secoli più recenti di un sapere biologico ormai corposo dovrebbe aiutare a tenere ben distinto il dominio scientifico della vita sulla Terra da quello religioso avendo essi ambiti di competenza specifici, in grado di evitare posizioni ambigue o sconfinamenti dell’uno nell’altro. L’uomo infatti è punto di incontro del finito e dell’infinito, è consapevolezza della vita e della morte, è libertà e responsabilità, è desiderio senza fine, è ricerca della dimensione che si situa oltre quella apprezzata dai sensi.
E’ ben noto come in Einstein la comprensione della fisica e quella della religione fossero strettamente connesse poiché egli vedeva nel limite delle nostre menti la impossibilità di cogliere la forza misteriosa che muove l’universo; e lo stesso vale per Max Plank secondo il quale la scienza deve essere consapevole del suo orizzonte parziale e limitato che coglie solo frammenti di realtà. Ed ancora, per citarne solo uno tra i tanti più recenti o contemporanei, basta guardare a F.S.Collins (n. 1950), ex Capo dello Human Genome Project; inizialmente agnostico e poi ateo, egli vede alla fine non più il conflitto tra scienza e fede ma addirittura la complementarietà dell’una all’altra nella sua sintesi di pensiero che chiama “BioLogos” (insieme di vita e parola=Verbo=Dio).
E’ tuttavia evidente che la relazione che ogni uomo desidera, e cerca di stabilire, con il divino tanto più rischiarerà la vita reale quanto più risulterà commisurata alle sue condizioni, alla sua sensibilità e cultura, alle sue aspirazioni. E’ per questo che la rappresentazione di Dio cambia come cambiamo noi stessi; da qui la necessità di un Dio vivente e universale, non cristallizzato né tanto meno imposto in rigidi schemi teologici o dottrinari, ma presente nel mondo e disponibile ad accompagnarci nel percorso di vita entrando in essa ed infondendo coraggio, speranza, sete di giustizia, amore. Molti scienziati, e non solo, esauriscono comunque la loro visione della comparsa e dell’evoluzione dell’uomo nel solo meccanismo biologico e alcuni di essi travalicano addirittura i limiti della disciplina scientifica sconfinando in un materialismo filosofico e in conclusioni di tipo etico usando l’evoluzione come prova della non necessità di un Creatore. Del pari, sul versante opposto si sono sviluppate teorie che sostengono il creazionismo come unica verità possibile e accettabile, differenziandosi in un creazionismo in senso stretto e nel cosiddetto disegno (o progetto) intelligente, negando alla teoria dell’evoluzione valore scientifico. In realtà tutto ciò accade quando da una parte si travalicano i limiti di una “scienza” che per sua natura non può, né dovrebbe, invadere la sfera del trascendente con conclusioni negazioniste e dall’altra si superano i confini di una fede religiosa che non dovrebbe limitare o contestare le conquiste della scienza. Ma altri, molti, accettano la coesistenza di pensiero mistico e pensiero logico. E’ di fatto questo spirito di equilibrio e di armonia ciò che regola l’universo e la vita e sul quale trovano fondamento supremo la scienza e la religione. Scienza e fede, che S.J. Gould definì “magisteri che non si sovrappongono”, in realtà non si sovrappongono confliggendo o annullandosi, possono piuttosto convergere verso un Tutto! Per i viventi infatti, la vita evolve fin dall’inizio con il suo carico di sofferenza, di passione, di morte; ma la morte, che è di per sé come la nascita parte costitutiva dell’universo, è la conclusione del divenire, a tutti i livelli. Non vi è un iniziale mondo perfetto, un eden da rimpiangere; vi è un cammino da fare, un progetto da realizzare, un “muovere verso” che sul piano ontologico va verso la complessità e la sempre maggiore coscienza per confluire infine, nel dialogo fecondo tra le culture e le religioni, verso la Verità e l’alleanza tra gli uomini, con la natura, con Dio comunque lo si intenda. Se la morte biologica è l’arresto di un singolo fenomeno vitale perché la Materia si dissolve determinando l’estinzione dell’individualità corporea, il Pensiero (lo Spirito) non muore ma ad essa sopravvive quale energia comparsa con l’uomo e rimasta specificamente umana, destinata a perpetuarsi, trasformarsi, crescere(?); esso è parte del “divenire” di ogni esistenza, umana e non, è il fenomeno conseguenza-necessità della trasformazione-evoluzione dell’universo in tutte le sue forme, uomo compreso, che sono sempre mutevoli nello spazio e nel tempo, apparendo e scomparendo in un lampo o in miliardi di anni.
Sosteneva N. Bobbio, condiviso dal card. Martini, “la vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”; “pensare” equivale a cercare, a domandare, ed è proprio questa curiosità, questo cercare o domandare, che differenzia tra loro gli uomini sul piano spirituale. Chi cerca, sia esso credente o non credente, avverte che dietro la realtà che ci appare esiste una verità che sfugge ai sensi, alla ragione, alla scienza; percepisce cioè il mistero che lo circonda ed è aperto alla ricerca e al pensiero altrui spingendo il suo sguardo oltre il reale, verso universi differenti; la sua curiosità è una pulsione che nasce da motivazioni interne quale desiderio di conoscenza completandosi emotivamente nella meraviglia e nello stupore e dando così sapore alla vita. E’ verosimilmente questa la curiosità che ha spinto i primi uomini a varcare i confini dei territori in cui erano nati, è certamente la curiosità che porta il bambino nel suo affacciarsi al mondo alla scoperta delle tante novità, è la curiosità che diviene amore di conoscenza a motivare nei suoi sforzi e nelle sue riflessioni il ricercatore dedicato all’esplorazione dell’uomo e dell’universo; è, in sostanza, la curiosità “epistemica”, desiderio ed amore di “sapere certo”, ricerca continua di ”conoscenza ultima e profonda”, che può (deve) sostenere l’uomo in tutto il suo percorso vitale. E’ quest’ultima la “curiosità che non invecchia”; in età avanzata si modificano rispetto a prima i desideri ed i programmi, non più desideri di grandi eventi né programmi a lunga scadenza ma possono (devono) rimanere immutati il gusto della conoscenza, l’entusiasmo all’esperienza stessa della vita che ora appare più preziosa rispetto agli anni passati, la meraviglia per gli spettacoli della natura, l’interesse per l’uomo, le sue opere, i suoi sentimenti. In questa ricerca ognuno deve procedere direttamente ed a modo suo perché ad ogni posto attribuisce significati che possono essere diversi da persona a persona; la cultura individuale, prodotto della famiglia, dell’ambiente, dell’educazione nella sua accezione più completa, è poi di aiuto in questo sforzo che è sentirsi liberi ed insieme responsabili, autorevoli per sé ma rispettosi della libertà altrui, custodi consapevoli della natura, padroni di quel bene sommamente fuggevole che è la propria vita capace sempre di generare armonia, pace, giustizia.

Grazie Achille. E’ stato un piacere averti come Primario!
Mario