– La prima volta che ti ho ascoltato è stato ad un congresso organizzato dal Prof. Smaltino , penso inizio anni 90, in Aula Magna della Università Federico II , al II Policlinico a Napoli, dove riportavi le tue esperienze nel trattamento EV degli aneurismi cerebrali. Che ricordo hai di quel periodo “pionieristico?

Dei “padri” della Neuroradiologia Italiana, ma potrei dire europea, a parità di valore, ho sempre prediletto la signorilità di Alberto Calabrò, il riserbo di Angelo Passerini o l’estrema e silenziosa competenza di Mario Savoiardo. Ero meno incline alla tumultuosa sapienza del professor Giovanni Ruggiero, mentre la forza e la “potenza” del professor Franco Smaltino mi intimorivano addirittura. Eppure, per gli oscuri meandri della mente umana, quest’ultimo aveva nei miei confronti stima e simpatia. Mi invitava, a Napoli, a tenere alcune lezioni al corso di Specializzazione in Radiologia. In quel Congresso a cui alludi, mi chiese quale fosse stata la molla a farmi cambiare rotta verso l’interventistica. La mia risposta fu una sola: una punizione! Alla fine degli anni ’80 l’Angiografia non voleva farla nessuno. I primi tentativi di occlusione degli aneurismi cerebrali con i palloncini, che ci presentava Giuseppe Scialfa erano, a dir poco, deludenti. Il fervore massimo era per la Risonanza Magnetica, ma il prof. A. Carella, direttore mio e di Mino Andreula, per certi versi simile caratterialmente al prof. Smaltino, decise di precludermi quella via. Passavo le mie giornate in Sala Angiografica sperimentando l’inutile via della DSA venosa ed eseguendo i cateterismi cerebrali per via femorale ai “comandi” dei neurochirurghi. Finito il mio turno istituzionale, caparbiamente, quasi di nascosto, mi intrufolavo in RM. Nel 1991 al Neurological Institute della Mc Gill University di Montreal, dove ho avuto il privilegio di conquistare amicizia e stima da parte di Denis Melançon (ricordato anche da Scotti nella sua intervista), finivo sempre, con Donatella Tampieri in Sala Angiografica, pur di parlare un po’ in italiano. In Nord America, in quei tempi, non erano ancora distribuite le guide idrofiliche Terumo e tanto ne parlai con la Tampieri e Ter Brugge, allora consulente da Toronto, che il presidente giapponese della Terumo mi scrisse una lettera, da me ancora conservata, per ringraziarmi della “involontaria” divulgazione. E poi Guido Guglielmi, le spirali di platino, i primi successi nella cura degli aneurismi cerebrali, le prime presentazioni di J. Moret e dello stesso Scialfa. Alla punizione di dover per forza stare in Angiografia, si sostituì piano, un po’ per volta, la curiosità, la voglia di mettersi alla prova. Da lì vennero l’Ospedale Lariboisière di Parigi, sotto la guida del prof. J.J. Merland e soprattutto la generosità nell’insegnare di Alfredo Casasco e l’amicizia e l’aiuto di Nevia Caputo, che era stata lì prima di me. Il primo aneurisma a Bari a metà degli anni ‘90, sotto l’occhio vigile e affettuoso di Dodi Boccardi che aveva aperto la strada a tutti noi italiani. Hai detto bene “epoca pionieristica”; con Carlo Venturi di Siena ci contavamo gli aneurismi: io ne ho fatti 50, io sono a 60! Oggi a Taranto ne contiamo più di 1500. E non solo aneurismi, ma anche MAV, prima con la colla che allora si chiamava Hystoacril, i palloncini staccabili preparati artigianalmente, le microguide e i microcateteri sempre più perfezionati, le spirali di platino bioattive, poi abbandonate, l’Onyx, nelle MAV ma anche negli aneurismi giganti (poi abbandonato), i palloncini per la tecnica del remodelling ecc, ecc. Ma l’avventura continua e non si ferma qui. Credo, e concludo, che l’epoca pionieristica continui ancora con gli stent a diversione di flusso, i dispositivi endosacculari, i nuovi polimeri embolizzanti. Ai tanti giovani colleghi e amici mi piace oggi suggerire di non fermarsi mai, non fossilizzarsi in quello che si è già imparato, ma coltivare sempre la curiosità delle nuove acquisizioni che la ricerca ingegneristica di continuo propone.

– Diagnostica, clinica e technical skills: quale è la ricetta migliore per la loro fusione?

Siamo medici e curiamo ammalati, non immagini. Un’antica diatriba che affliggeva i neuroradiologi della mia generazione era: prima radiologi o prima neurologi (o neurochirurghi)? La mia opinione è che nel lavoro del radiologo non si debba mai prescindere dai sintomi che portano un paziente alle nostre immagini. Si è tanto parlato di Radiologia d’organo. Ma per il sistema nervoso le cose stanno diversamente. La complessità anatomica, istologica, strutturale ma anche chimica e funzionale e le numerose entità nosografiche della patologia del “tessuto” nervoso fanno della Neuroradiologia una “Disciplina” e non una “Specializzazione” d’organo. Non so dare ricette, ma personalmente ho sempre avuto un sogno nel cassetto, forse un’utopia nell’attuale organizzazione orizzontale della diagnostica. Nei reparti (detesto la parola “Servizi”) di Radiologia o di Neuroradiologia, si eseguono indagini che rimandano ad altre indagini, con un andirivieni di richieste cartacee o informatizzate, referti, carte…una montagna di dati spesso incoerenti, padroneggiabili con grande difficoltà. Il mio sogno sarebbe di non esaminare, come oggi avviene, 100 ammalati in una giornata di lavoro. Non più di 10 persone che entrano in reparto al mattino con un quesito diagnostico ed escono la sera con un iter di imaging completo e con un orientamento diagnostico o addirittura, laddove possibile, anche con un intervento. Anche con le tecnologie correnti questo sarebbe teoricamente realizzabile. L’”emergenza-urgenza” è ovviamente un’altra cosa. Occorrono reparti dedicati, con strumentazioni e risorse umane indipendenti. Solo in questo modo si potrà ovviare alle continue interruzioni dell’attività d’elezione ed anche alle estenuanti attese degli ammalati al Pronto Soccorso. Per non dire che, una siffatta organizzazione lascerebbe maggior tempo alla ricerca, e non solo nelle Università.

– Bari e poi Taranto. Passioni, rimpianti o altro?

Qui la mia risposta sarà davvero breve. La mia indole, il mio carattere, chiamatelo se volete il mio temperamento, è poco incline all’introversione. Nella domanda avrei aggiunto una terza città, Bologna dove ho frequentato l’Università e dove ancora oggi vive una parte, molto amata, della mia famiglia. Ho dovuto fare delle scelte, non soffro di “nostalgie”, ho sempre vissuto, e credo tuttora di vivere, nel presente con “passione”. Mantengo un sguardo critico al passato, ma rimpianti no. Forse qualche opportunità mi è stata negata, questo sì, ma non me ne sento colpevole. Ho sempre amato il mondo universitario, credo sarei stato un buon docente, senza falsa modestia.

– La Neurochirurgia Vascolare: che futuro? e la Neuroradiologia endovascolare come deve attrezzarsi?

Su questo argomento so di essere contro tendenza. La cosa che ritengo più controproducente è la difesa unilaterale della neuroradiologia interventistica e mi riferisco prevalentemente a quella endovascolare. L’impulso maggiore a questa polemica è sorto, di recente, sulla terapia dell’ictus ischemico, quando è nata prepotente la consapevolezza che le risorse neuroradiologiche esistenti sarebbero state insufficienti. Sempre che, finalmente, la richiesta degli interventi di trombectomia divenga quella attesa dalla gittata epidemiologica. I Master post-universitari (o meglio post-specializzazione) per quanto egregiamente istruiti, temo che resteranno inadeguati a creare le competenze e i numeri necessari. So per certo che fuori d’Italia (e fuori d’Europa) il consorzio più attivo (o più temibile?) a candidarsi, in tale ambito, proviene dalla Cardiologia Interventistica, e qualcosa di simile si inizia a sentire anche da noi. Sono consapevole che quanto sto per dire possa configurare un “conflitto d’interesse”, in quanto chi parla è genitore di un cardiologo interventista! Ma non è così. In tempi non sospetti, quando Fabrizio frequentava le scuole elementari, già perseguivo la pratica di insegnare quello che faticosamente avevo appreso a qualsiasi categoria professionale me ne facesse richiesta. Si trattava però sostanzialmente dello stenting carotideo insegnato a chirurghi vascolari e cardiologi. Diversa cosa è il circolo endocranico. Personalmente, e spero di essere il più benevolo dei profeti, nascerà una disciplina (o una specializzazione, credo che sia una questione solo semantica) che prenderà un nome che non so o non voglio al momento denominare, che vedrà al suo interno un insieme di medici che “navigano” nei vasi sanguigni utilizzando devices endovascolari e farmaci diversificati, ma simili. Agli strenui difensori della categoria, vorrei rammentare che le “élite” sono una corrente filosofica negativa, più siamo ad imparare questa affascinante branca della medicina, meglio é, indipendentemente dall’appartenenza. In un siffatto panorama la Neurochirurgia deve avanzare nel suo cammino. Ho sempre pensato che in un centro dove si curano le patologie vascolari dell’encefalo (e del midollo spinale) il neurochirurgo ed il neuroradiologo interventista debbano essere di pari eccellenza. Solo così non si creano forzature verso l’una o l’altra disciplina. Non vi è dubbio che le tecniche endovascolari sottraggano sempre più casistica ai neurochirurghi vascolari, creando il problema della difficoltosa formazione di quest’ultimi. Occorrerà trovare un giusto equilibrio.

– Hai vissuto per anni nella città dell’ILVA, come ha influenzato e perché lo sviluppo della tua città? Mi farebbe piacere sapere la opinione di un cittadino illuminato.

Grazie innanzitutto per l’”illuminato cittadino” che non penso in tutta sincerità di meritare. Sicuramente penso però di essere un osservatore attento. E’ la domanda più difficile di questo interessante questionario, difficile perché attiene all’intero consorzio umano e sociale e alla storia di una città. Ho avuto la necessità di parlarne a mia volta con personalità politiche, non solo locali, amici che stimo e che ringrazio, per arrivare a queste brevi considerazioni. Taranto è una città oggi ferita. Ma è anche la città che nell’antichità ha visto fiorire la cultura e la filosofia pitagorica, che possiede un patrimonio archeologico unico al mondo. Ha una posizione geografica anch’essa unica con due bacini marini impareggiabili. La città vecchia è un’isola, con palazzi settecenteschi (oggi in totale abbandono) e cattedrali romaniche. Una città che vantava già grandi tradizioni culturali quando Lecce e Bari erano appena dei borghi e Bari doveva contendere ai veneziani il primato di trafugare le ossa di un Santo per accrescere la propria importanza! All’inizio dei anni ’60 ricordo, da ragazzetto non ancora decenne, splendide spiagge antistanti l’attuale ILVA, dove era possibile estrarre le vongole con le mani dalla sabbia e si vedevano le seppioline scaricare la “melana”. Il Siderurgico, come si chiamava all’esordio di questa triste vicenda (poi Italsider e solo più di recente ILVA) doveva nascere altrove. Furono le sollecitazioni, si spera in buona fede, di una certa frangia politica ed anche clericale, sull’allora governo democristiano, a chiedere e ottenere di portare a Taranto la più grande acciaieria d’Europa. Dalla sera al mattino quasi la totalità dei contadini e degli allevatori si ritrovarono operai, più o meno specializzati. Un contesto urbano privilegiato, grazie al ricambio sociale dovuto alla Marina Militare e ad un Arsenale Navale che dava lavoro, all’epoca, a migliaia di operai, si andò progressivamente impoverendo. Le belle strade e i balconi fioriti si coprirono, in breve tempo, di una polvere granulosa, rossastra proveniente, con il vento di tramontana, dall’incauto ammassarsi dei residui minerali, vere colline che formavano e formano tuttora i cosiddetti parchi minerali. E poi una catena inarrestabile di inadempienze, pare anche sindacali, un inammissibile e illecito arricchimento quando si passò dalla proprietà statale a quella privata. Oggi è finalmente presente una maggiore consapevolezza dell’impatto ambientale e del rischio oncologico. Non so rispondere se i tumori a Taranto siano aumentati. E’ un quesito da porre agli studi epidemiologici, sincerandosi che siano condotti con la massima trasparenza. So per certo che chiudere, come sento dire, l’ILVA è velleitario e può rispondere unicamente a fini propagandistici, forse anche elettorali. Da inguaribile ottimista qual sono, sogno una soluzione politica che restituisca il maltolto economico e sociale alla città. Un “indennizzo” che permetta il risanamento ambientale senza togliere il lavoro alle famiglie di 20.000 operai ( quanti sono con l’indotto che gravita intorno all’ILVA). Sogno che sia restituita la vita all’ “isola” e che i suoi splendidi palazzi e le due rive, una sul Mar Grande ed una sul Mar Piccolo, tornino all’antico splendore. Non ho dubbi che sia possibile. Occorrerà che i “migliori cittadini” tornino ad occuparsi della cosa pubblica senza lasciarla, come è accaduto negli ultimi decenni, alle frange peggiori di chi non ha trovato miglior sbocco professionale che fare della politica una carriera. Con le dovute rare e stimabilissime eccezioni, naturalmente.

– Mare o montagna? Musica classica o opera?

Per chi come me è nato nell’alto Salento, in una regione stretta come la Puglia, dove ancora oggi d’estate si decide di andare al mare in base al vento, sull’Adriatico con lo Scirocco, sullo Jonio con la Tramontana, la domanda è davvero superflua. Però quando studiavo a Bologna ho imparato a sciare, a Sestola sull’ Appennino tosco-emiliano, nel fine settimana, e così ho iniziato ad amare anche la montagna. Direi, d’estate solo mare, la montagna innevata d’inverno. Quanto alla musica, la mia insegnante alle scuole medie, diceva sempre che lo strumento musicale più perfetto è la voce umana. Da qui il mio amore per il melodramma italiano, non così tanto però da potermi definire un melomane. La musica sinfonica, credo, richieda un approccio più esperto e meno frettoloso. Ma ascolto anche la musica leggera: Elton John, i Beatles , Mina e Gianna Nannini e simili. Quindi sulla musica…gusti semplici!

– Parlami dei tuoi hobbies

Tanti, forse troppi, e finisco per non eccellere in nessuno. Quelli che perseguo maggiormente, purtroppo per la mia linea, sono sedentari. In prima linea assoluta la lettura. Ho l’abitudine, condivisa da pochi, di leggere anche tre o quattro libri contemporaneamente. Anche in questo ricerco più il piacere personale che l’impegno. Per farmi capire, in questi giorni ho appena finito l’ultimo romanzo di Maurizio De Giovanni (quindi disimpegno totale, ma di livello), sto rileggendo “I fratelli Karamazov” e un trattato sulla storia d’Inghilterra, suggeritomi da un mio amico, grande bibliofilo. Mia madre, insegnante di liceo classico, diceva sempre a noi figli, che chi ama leggere non è mai solo e non conosce la noia. E’ davvero così. E poi il cinema, ma non in TV, amo talmente tanto la magia del buio delle sale cinematografiche che raramente un film, per brutto che sia, possa deludermi. Mi piace disegnare, ma creatività zero, sono solo un copiatore, forse avrei avuto un futuro come “falsario”! Nello sport…una vera schiappa. Li ho provati tutti, sempre con pessimi risultati e allora mi sono rassegnato ad evitare quelli di squadra, almeno non faccio danni agli altri. A Dino Carella, al quale come si è capito, non sono legato da un grande ricordo, riconosco di avermi istradato al Bridge, un gioco che mi diverte davvero molto che però richiede troppo tempo, tempo che ancora non trovo ma presto troverò.

– Avere una figlia che fa il tuo stesso lavoro. Limiti e benefici?

Quando la figlia ha una vivida e rara intelligenza saranno solo benefici, e non solo nel lavoro. La mia più grande fortuna, lo pubblicizzo continuamente, è stata quella di incontrare l’amore, la compagna, l’amica della mia vita: Giustina, mia moglie. Ma la mia confidente, chi mi aiuta nelle decisioni difficili è Mariachiara. Se ho condizionato i miei due figli nella scelta lavorativa, questo è avvenuto con totale inconsapevolezza. Qui faccio una confessione inedita. Mi sarebbe piaciuto che facessero un lavoro diverso (pochi mi crederanno ma è la verità). Ho “abbracciato” poi, con entusiasmo la loro scelta, ho ristudiato con loro alcuni passaggi difficili, sia nel corso di laurea che in quello della specializzazione. Discussioni, confronti, a volte anche aspri, a non finire, ma il bilancio è positivo. Quando le strade si sono divise e si è persa la quotidianità, è rimasto il conforto del confronto a distanza. Oggi sono io a chiedere aiuto più frequentemente in certe diagnosi insolite o difficili. In un team di neuroradiologia interventistica una donna è assolutamente necessaria, riporta nei ranghi della prudenza e della saggezza, l’intraprendenza, a volte eccessiva, di noi “maschi” che non sempre riusciamo a dominare l’istinto filogenetico del “cacciatore” che alberga nel nostro animo. Mariachiara qualche anno fa ha dovuto scegliere l’imaging e abbandonare l’interventistica, ma si affaccia sempre in sala angiografica e i suoi suggerimenti risultano sempre preziosi. Insostituibile nelle ricerche bibliografiche, é dotata di non comune potere di sintesi quando si scrive un lavoro. E’ la più acerrima, a volte crudele, giudice del padre. Ma come si può rimproverarglielo in un tale panorama fatto in gran parte di benefici e solo di qualche piccolo limite?

– Etica e sperimentazione, è giusto porre limiti ed in che maniera?

Le questioni di bioetica sono sempre spinose. Che ci debba essere un condiviso codice di comportamento, sia nella ricerca che nel lavoro quotidiano, è fuori di dubbio e da tale codice non è lecito discostarsi. Le cose si complicano quando si deve decidere chi sia così autorevole da scrivere le regole di autoregolamentazione. Per fare un esempio, di tanto in tanto si sente dire: la curva di apprendimento nelle tecniche interventistiche la pagano i pazienti. Una frase odiosa che però contiene, ahinoi, una parte di verità. Chi pone le domande, in questa intervista, ha il grande merito di aver introdotto, anche in Italia, i laboratori di sperimentazione angiografica sugli animali. Una via sicura per sottrarsi all’inesperienza sui pazienti. Certamente gli animalisti troveranno da ridire, ma questo porterebbe i nostri discorsi molto lontano. Ritengo che con le “innovazioni” occorre procedere con molta prudenza. E’ legittima la curiosità di voler sperimentare personalmente quel nuovo device che sembra così promettente! Ma forse sarebbe più “etico” attendere i risultati globali e a più lungo termine di alcuni centri di ricerca autorizzati. Sotto questo profilo i criteri per ottenere la registrazione CE, piuttosto che FDA, dovrebbero essere ancora più stringenti. Troppi materiali non hanno retto alla prova del tempo e non sempre senza produrre danni. In poche parole occorrono più comitati etici locali, ma in mani esperte e non scaturiti da frettolose nomine di “improvvidi e spesso incompetenti” Direttori Generali. Auguriamoci maggior controllo esperto e titolato negli organismi della sanità pubblica e privata, nazionale ed europea. Europea, che bella parola! Oggi forse troppo vituperata e ristretta a finalità economiche?
Ma questa è un’altra storia.