Caro Professor Scotti, caro Pepe,
diamo il via con te ad una serie di interviste a personaggi della neuroradiologia italiana e estera che hanno contribuito in maniera significativa alla diffusione della nostra disciplina in Italia.
1 – ci siamo si parte !! Come mai hai fatto il neuroradiologo e non altro?
Nel mio caso, la risposta non può essere lineare e categorica come lo è la domanda. Infatti, prima di fare il neuroradiologo avevo scelto di fare “altro”. Ed è proprio questo “altro” che poi mi ha portato verso la neuroradiologia.
Dopo la laurea in Medicina, presa a Milano nel luglio 1963 (quasi 55 anni fa!) ho seguito il mio interesse per il Sistema Nervoso e mi sono iscritto a Neurologia. Allora la scuola di specializzazione si chiamava “Clinica delle Malattie Nervose e Mentali”. Si, anche mentali; la specializzazione separata in Psichiatria è venuta dopo. Ho quindi fatto l’assistente “volontario” in Clinica neurologica a Milano (allora quello di “Assistente Volontario Universitario” era un ambìto titolo, ovviamente gratuito ma ufficialmente riconosciuto come primo passo della carriera accademica!). Nel 1968 ho avuto un incarico di assistente universitario neurologo, consolidatosi poi in un ruolo, con un concorso vinto alla fine del 1969. Ho continuato a fare il neurologo nella Clinica neurologica dell’Università di Milano, in uno dei più brillanti e attivi gruppi di ricerca italiani, già allora con ampie relazioni internazionali, guidato da Ennio De Renzi, nel Padiglione Ponti del Policlinico diretto dal Prof. Ermenegildo Gastaldi.
Sono così venute responsabilità di reparto, guardie notturne (anche dieci in un mese!), ricerca avanzata in ambito neuropsicologico alla scoperta delle localizzazioni delle funzioni cerebrali, sperimentazioni farmacologiche, la prima sulla L-Dopa per il Parkinson 1969-1970.
Il “grande salto” verso la Neuroradiologia avviene nel 1971, a Montreal, in Canada. Ci vado con una borsa di studio del Canada Council, vinta per condurre ricerche di neuropsicologia sulla localizzazione delle aree cerebrali per le funzioni spaziali, nel prestigioso gruppo di Brenda Milner, al Montreal Neurological Institute dove lavorano e operano neurochirurghi di fama mondiale come Penfield, Rasmussen, Feindel. Dopo solo dieci giorni, vengo “fulminato sulla via di Damasco” della Neuroradiologia. Nei Grand Rounds clinici, nonostante non vi fosse ancora la TAC, il ruolo dei neuroradiologi per arrivare alla diagnosi, appariva centrale e mi affascinava la loro capacità di essere precisi e determinanti. Passo così di reparto, dalla neuropsicologia vengo trasferito come resident in neuroradiologia e lì, con Romeo Ethier e Denis Melanson inizio il mio cammino neuroradiologico. Piglierò poi la specializzazione in radiologia a Milano nel 1976, passerò in tutto quattro anni in Canada dal 1971 al 1980, sia a Montreal per tre anni che a Toronto per un anno all’ospedale dei bambini con Derek Harwood Nash. Nel frattempo, di ritorno in Italia avrò la fortuna di poter lavorare con la prima TAC di Milano, arrivata il 30 giugno 1976, la quinta in Italia dopo quelle di Ruggero a Bologna, di Salvolini ad Ancona e quelle di Verona e Pavia.
2 – Bianco, nero o grigio?
Beh, se la prima domanda è un po’ categorica, questa mi pare un po’ ambigua, quasi amletica. Suppongo tu voglia conoscere una sorta di giudizio “finale”, una mia valutazione del grado di soddisfazione per aver scelto di fare il neuroradiologo. Essendone tuttora molto soddisfatto, dovrei dire bianco, ma preferisco scomodare tutti i colori dell’arcobaleno. Non solo non mi sono mai pentito della scelta fatta, ma me ne sono più volte compiaciuto. Sono stato fortunato come medico e come persona, per aver scelto un campo della medicina, professionale, di ricerca e di insegnamento, che ha tratto vantaggio da una incredibile serie di invenzioni rivoluzionarie (la TAC, la Risonanza Magnetica, l’interventistica, il ruolo determinante in molti settori della ricerca clinica, basti pensare alla sclerosi a placche, all’imaging funzionale nella gestione delle scelte neurochirurgiche, al trattamento endovascolare degli aneurismi e tante, tante altre situazioni). Quindi certamente non nero né grigio, ma neppure bianco. Un’esplosione multicolore di soddisfazioni, emozioni, stupefacenti sorprese. Aver contribuito a questa piccola ma rilevante parte della storia della medicina, anche solo marginalmente, con la creazione di un reparto e la formazione di un gruppo ampio e qualificato di neuroradiologi, dal 1987 al 2011 al San Raffaele, non può che essere salutato con un arcobaleno. Sapendo che, anche gli arcobaleni lentamente si dissolvono nell’aria, passato il temporale, per essere però poi sempre sostituiti da altri arcobaleni e dal cielo sereno. L’unico grigio, anche se non temporalesco, è rappresentato dal relativo fallimento sul piano istituzionale: non essere riusciti a creare un ben codificato percorso di formazione, con una specifica Scuola di Specializzazione in Neuroradiologia. Molta strada però è stata fatta sia a livello nazionale che internazionale, e un percorso di formazione oggi esiste, anche se non così lineare come sarebbe giusto, utile e necessario.
3 – Fammi 3 nomi che hanno influenzato le tue decisioni di vita e perché.
Questa è la domanda che più mi piace ma è anche quella che un po’ mi commuove e mi imbarazza. Anche qui per rispondere mi serve uno spettro più ampio che non tre sole scelte, numero insufficiente come prima erano insufficienti le tre gradazioni di bianco, nero e grigio. Le persone a cui devo molto, che più hanno influenzato le mie decisioni di vita, sono infatti ben più di tre, un arcobaleno di persone.
In primo luogo i miei genitori, nel senso che mi hanno educato al senso di responsabilità, alla curiosità, alla libertà, alla generosità, all’impegno, all’onestà e al rigore, incoraggiandomi ad essere sempre aperto al mondo, alle novità, ad uscire dalla ristretta e tranquillizzante cerchia famigliare e locale. Ho viaggiato molto grazie a loro, fin da ragazzo, dapprima in autostop per l’Europa, negli anni cinquanta! Ho cercato sempre di vedere le cose e di fare le scelte nella più ampia cornice del mondo anziché in quella dell’immediato interesse personale.
Poi ci sono stati i maestri veri, quelli da cui ho imparato il mestiere, di medico prima e di neuroradiologo poi. Ne citerò solo i nomi senza dilungarmi troppo sulle caratteristiche personali, sulle doti di umanità e di intelligenza che ne hanno fatto dei veri maestri, non solo capaci, ma desiderosi di insegnare, di trasmettere sapere e metodologia di lavoro e di vita: Ennio De Renzi fra i neurologi; Denis Melanson e Derek Harwood-Nash fra i neuroradiologi, i miei maestri canadesi di Montreal e Toronto rispettivamente. Tutti e tre purtroppo non sono più fra noi, ma il loro ricordo, e la gratitudine che sento per l’influenza che hanno avuto sulla mia vita, non moriranno mai. Lasciami citare anche un altro caro amico che non c’è più, Mario Savoiardo, che per quanto coetaneo mi è stato, forse inconsapevolmente sia da parte mia che da parte sua, maestro, con la sola presenza e con la sola amicizia. Mario ha avuto un percorso simile al mio, dalla neurologia alla neuroradiologia, precedendomi anzi nella scelta e nella decisione di fare il neuroradiologo. Credo che il suo esempio mi abbia influenzato nella decisione iniziale, così come mi è poi stato di riferimento costante per il suo rigore, la sua serietà, il suo equilibrio.
Mi perdoneranno quelli che non cito e che comunque mi hanno influenzato in maniera più o meno determinante, non solo uomini, ma anche donne, a cui devo molto e a cui sono grato. Fra questi, i tanti giovani a cui ho insegnato e da cui, insegnando ho imparato. Primi fra tutti, i miei collaboratori e le mie collaboratrici in tutti i luoghi in cui ho lavorato, e in particolare quelli con cui ho condiviso la bella avventura dei ventiquattro anni al San Raffaele dal 1987 al 2011. E poi la vasta comunità dei Neuroradiologi italiani, europei e del mondo: in questa comunità ho imparato molto sull’importanza di fare squadra, in spirito di amicizia e collaborazione, oltre che di sana competizione per raggiungere obbiettivi sempre più alti nella nostra professione e nella medicina in genere.
4 – Mozart o Beethoven?
Se con questa domanda intendi allargare il campo della conoscenza delle “vite e storie di neuroradiologi” esplorando la loro cultura e i loro interessi extraprofessionali, nel mio caso la risposta sarà deludente. La mia cultura musicale è scarsa, forse perché la mia sensibilità è limitata, ma soprattutto perché la mia formazione alla conoscenza della musica, della grande musica, è stata insufficiente, sia in gioventù che successivamente nell’arco della mia vita.
Più che il suono della musica, amo quello delle parole, anche se delle parole, o meglio delle frasi, delle espressioni verbali, non mi dispiace la musicalità oltre che la ricchezza dei contenuti e l’efficacia della comunicazione. Sono più “competente” o se preferisci sono appena un miglior conoscitore della letteratura, della poesia, che non della musica. Ma se vuoi una risposta secca: Beethoven.
5 – Sinfonie o opera?
Sinfonie.
6 – Neuroscienze o diagnostica per immagini?
Ho sempre sostenuto, talora facendo anche un po’ arrabbiare gli amici radiologi, che la scelta della definizione di “Diagnostica per immagini” a sostituire quella di radiologia, fosse riduttiva, per non dire autolesionista se non addirittura suicida. E’ evidente che la diagnosi non si fa per immagini, ma per ragionamento clinico. L’immagine è una parte della diagnostica, destinata a mutare nel tempo, come abbiamo visto, con il rischio se non persino con la probabilità in un futuro non lontano, di essere sostituita da numeri, da dati misurabili anche soltanto da un algoritmo di computer, in questi tempi sempre più dominati dall’informatica e dal virtuale. Limitarsi all’immagine comporta quindi un rischio, il rischio che i radiologi, che Wackenheim chiamava “les imagiers de la médecine” vedano sparire la ragione della loro esistenza: l’immagine, l’icona perfetta. D’altronde, diceva sempre Wackenheim “Tutto ciò che ha una data di nascita ha una data di morte. La medicina non ha data di nascita, la sua nascita si perde nella notte dei tempi. La radiologia è nata nel 1895…”. Io credo che il forte radicamento della neuroradiologia nelle neuroscienze, la sua capacità, la sua volontà di confrontarsi a pieno diritto con tutti i medici e gli scienziati che si occupano di neuroscienze, che si impegnano a conoscere, scoprire i misteri del cervello, della sua fisiologia e delle sue patologie, sotto l’ampia definizione di neuroscienze, abbia fatto e faccia la forza della neuroradiologia e sia una garanzia non solo per la sua sopravvivenza ma per la sua crescita e per il suo sviluppo.
La neuroradiologia quindi, che non ha una data di nascita, quanto più si inserirà e si contaminerà con gli sviluppi delle neuroscienze, in tutti i campi della ricerca di base e della ricerca clinica, oltre che della clinica e della terapia medica o chirurgica, ha davanti a sé ancora un lunghissimo percorso. Alla Radiologia auguro di trovare la stessa intelligenza e capacità di trasformarsi in una branca sempre più clinica e sempre meno “iconografica”. La sfida comunque per entrambe le discipline starà nel riuscire a governare gli imprevedibili cambiamenti che il mondo della intelligenza artificiale, del machine learning, della radiomica è destinato a proporci.
7 – Cosa suggeriresti al ministro della salute ed a quello della ricerca per migliorare assistenza e formazione?
Un paradosso nelle mie fantasie è sempre stato che, se mai avessi scelto di avere un impegno in politica (al di là di quello di spettatore attento, talora di militante di base che comunque mantengo, oggi nell’area liberal riformista progressista rappresentata per me dal PD) non avrei voluto fare il ministro della Sanità. Forse neppure quello dell’istruzione e della ricerca. Avrei preferito essere utilizzato nel campo delle relazioni internazionali, della politica estera. Perché?
Perché ritengo il compito del Ministro della Sanità di una tal complessità e delicatezza, visto che deve conciliare un diritto, un valore centrale e fondamentale, prioritario per l’Umanità, come quello della salute e della vita delle persone, con problemi di compatibilità di bilancio, da essere difficilmente sostenibile da qualunque persona.
In un mondo di Utopia, farei del ministero della Salute un “Ministero della vita, sana, lunga e felice” e riterrei le esigenze finanziarie di questo Ministero prioritarie in senso assoluto su tutte le altre. Vorrei che tutti i finanziamenti o comunque tutte le attività finanziarie che girano attorno a situazioni effimere e voluttuarie, dallo sport al gioco d’azzardo, dal fumo all’alcol, dal panettone di Natale ai regali più o meno costosi, dai gioielli alle pellicce, fossero gravati da una tassa per la vita e per la salute da convogliare al Ministero. Così come vorrei che alla ricerca fosse destinata per legge una parte dei profitti delle società che guadagnano, legittimamente, con l’industria della salute, dai produttori di protesi e device, a quelli che fanno farmaci, supporti ortopedici etc. Darei sgravi fiscali a chiunque volesse investire in Sanità e ricerca, e favorirei, sotto il controllo di una rigorosa autority, la competizione pubblico-privato nella creazione di strutture sanitarie e nello sviluppo delle ricerca in campo biomedico.
Come vedi non sono in grado di dare una risposta alla tua domanda perché credo che la nostra società non sia organizzata per dare priorità alla difesa e allo sviluppo del più grande valore dell’umanità che è la vita umana. Dopo più di sessant’anni ormai nel corso dei quali ho visto migliaia di situazioni di dolore, di sofferenza per la scoperta di stati di malattia, di speranza e di gioia per la salute ritrovata o di disperazione per l’ineluttabilità del male (e non farmi parlare delle malattie dei bambini!) che si possano spendere in tutto il mondo migliaia di miliardi in armamenti e non per la ricerca scientifica, ti dà la spiegazione del perché non vorrei essere al posto del Ministro della Sanità.
So di aver divagato ma il discorso sull’organizzazione della Sanità in Italia (ma forse nel mondo intero, vedi le soluzioni “liberiste” adottate dalla Cina comunista, o in America lo smantellamento dell’Obamacare da parte di Trump) la dicono lunga su quanto sia complesso il compito di un ministro della sanità, se la società tutta non è impostata verso la difesa e il sostegno della vita. Centralità della vita, della conoscenza, della cultura dovrebbero far parte di un impegno planetario in un mondo in cui classi dirigenti illuminate fossero consapevoli della straordinaria opportunità che ciò rappresenterebbe per il progresso del genere umano. Così non è, e quindi penso che comunque la cosa più importante sia testimoniare con il proprio impegno che così dovrebbe essere, e sperare che l’esempio sia contagioso.
8 – Milano ombelico del mondo?
Mi stai provocando o stai facendo una constatazione? Io credo che la risposta a questa domanda possa essere data serenamente e senza presunzione, ma con la consapevolezza del ruolo sempre più importante che Milano sta avendo per la crescita e lo sviluppo del nostro paese. Se per mondo intendiamo il nostro piccolo mondo italiano, io credo che Milano sia diventata un esempio, un modello positivo che se applicato e replicato su scala nazionale, farebbe fare progressi al nostro paese. L’Italia è un paese magnifico, con decine di città e siti degni di essere considerati l’ombelico del mondo se per ombelico si intende un luogo dove ci si senta nel posto giusto, in qualche modo centrali, per realizzare e svolgere una qualunque attività di successo, che sia culturale, industriale, scientifica, turistica, organizzativa o strutturale.
Milano, per la sua storia che risale ai primi insediamenti celtici, poi romani, galli, per le influenze austroungariche, francesi, ma anche spagnole, poi sabaude e infine risorgimentali e socialiste e liberali postbelliche che l’hanno plasmata, ha dimostrato che si può fare sintesi del passato migliore e proporre e progettare il futuro. A Milano oggi si respira un’aria fattiva, dove si cerca di ridurre al minimo la pessima consuetudine italiana alla lamentazione, all’autocommiserazione, al mugugno. O, peggio ancora, alla furbizia, allo scetticismo, per non dire al cinismo, al parassitismo mascherato da presunte rivendicazioni di originalità o diversità “culturali”. Io credo che un atteggiamento positivo, malgrado tutto, si respiri in molte città italiane e che quindi non Milano, ma l’Italia, possa aspirare ad essere “l’ombelico del mondo”. (Anche se questa espressione non mi pare essere poi così lusinghiera. E’ più importante il cervello o l’ombelico, parte centrale della pancia certo, con una sua attrattività estetica, ma destinato all’irrilevanza fisiologica, una volta tagliato il cordone ombelicale?)
9 – Genetica, cellule staminali e medicina di precisione, cosa ti affascina di più?
Questa è una domanda molto complessa, perché si riferisce ad una realtà in movimento, rapidissimo peraltro, destinata a rivoluzionare il mondo, non solo della scienza e della medicina, per i prossimi decenni. Io credo che in questo caso le tre cose si tengano, e si influenzino a vicenda. E credo anche che ciò che vediamo ora, ciò che conosciamo ora, sia solo la punta dell’iceberg di ciò che verrà. La genetica la capisco un po’ di più e trovo che sia una delle discipline biologiche che più ci ha fatto capire la complessa realtà di ciò che siamo. La conoscenza sempre più approfondita del genoma, del programma molecolare che nel bene e nel male ci governa e ci condiziona, che addirittura condiziona il nostro destino, le nostre malattie, la durata della nostra vita (ricordate il fato dei greci? Beh, i geni ne sono in qualche modo l’espressione biologica!) sarà in grado di modificare radicalmente la medicina. La precision medecine non sarà che un epifenomeno del progresso di queste conoscenze, unita ai progressi nella gestione dei big data che riguardano noi, l’ambiente in cui viviamo, l’interazione con i farmaci che assumeremo etc. Quanto alle cellule staminali, mi pare che le grandi aspettative che vi avevamo riposto alla fine del secolo scorso, ancora non si siano avverate. Forse è solo questione di tempo.
10 – L’invenzione che ti ha affascinato di più sin da quando eri giovane?
Più che una specifica invenzione mi ha affascinato la capacità, la volontà di esplorare un’altra dimensione: lo spazio.
Quando è stato lanciato il primo sputnik, il 4 ottobre del 1957, avevo diciotto anni. Per me è stata una rivelazione e una conferma del famoso aforisma del padre della cosmonautica sovietica, Konstantin Tsiolkowski: “La terra è la culla dell’Umanità. Nessun essere umano resta nella culla per tutta la vita”. Poi è venuto il primo uomo sulla luna (sono stato sveglio tutta la notte, a seguire Tito Stagno che, in bianco e nero ci comunicava il 21 luglio 1969, l’atterraggio di Amstrong e Aldrin sulla luna!), le sonde su Marte, quelle nello spazio interstellare. Oggi abbiamo una immensa stazione spaziale permanentemente abitata che ruota sulle nostre teste, e la cosa ci lascia quasi indifferenti. Uno dei pochi rimpianti che ho, visti i pochi anni che la biologia e i miei geni mi lasceranno da vivere, è di non poter assistere allo sbarco umano su Marte, e alla sua colonizzazione. Che verrà, e come se verrà! E forse, in un futuro non lontanissimo (500 anni?) riusciremo a scoprire che non siamo soli nell’Universo. E allora tutte le nostre idee sulla nostra origine, sulla nostra centralità, sulla nostra presunzione di aver capito quasi tutto della vita, subiranno un giusto ridimensionamento per cedere il posto a nuove idee e a nuovi interrogativi. Cinquecento anni non sono molti, sono quasi tanti quanto quelli che ci separano dalla scoperta dell’America, cioè, in termini cosmici, quasi nulla.
11 – Quando hai scoperto la passione per la scrittura?
Fin dal liceo ho capito che mi piaceva scrivere, scoprire e approfondire il valore delle parole, la loro forza comunicativa. Allora nascevano i giornali di Istituto, in alcuni casi contrastati dai Presidi (ricordate il caso della Zanzara del Liceo Parini di Milano?), in altri casi tollerati, solo raramente sostenuti. Assieme ad altri compagni di liceo, per due anni ho fatto parte della redazione de Il Leonardo, il giornale del mio Liceo Scientifico Leonardo da Vinci. Ho scritto allora sia articoli di “impegno civile” che poesie. Da adulto, in particolare negli ultimi anni, ho pubblicato quattro libri e la mia produzione “letteraria” non è quindi gran cosa: Una biografia di mio papà, Francesco Scotti, politica per amore, con Giorgio Cosmacini per la casa editrice Franco Angeli nel 2010, un libro sui miei 24 anni al San Raffaele, intitolato Quale Provvidenza? Per la casa editrice “sedizioni” nel 2014. Per lo stesso editore ho pubblicato Medici del futuro nel 2015 e Il grande abbaglio nel 2017.
In precedenza, grazie a Marco Leonardi, ho pubblicato per la casa editrice Il centauro, tre libri di versi e poesie: Versetti satanici per la neuroradiologia italiana nel 1995, Piccioni, nel 2004 e Tu che credi in Dio nel 2007.
La passione per la scrittura è probabilmente figlia della passione per la lettura, ma anche per il gusto della conversazione, del raccontare, del condividere, del ricordare. E del desiderio, spero non soltanto narcisistico come qualche volta capita a chi scrive, di lasciare qualche traccia di ciò che ho fatto, che ho pensato, che ho vissuto. Il mio desiderio è quello di poter trasmettere ai giovani le lezioni imparate, le evoluzioni subite, gli errori commessi e tardivamente rimediati. Credo molto alla memoria, all’importanza che non vada perduta, all’obbligo di trasmetterla. La memoria è forse il prodigio più stupefacente del mistero straordinario che è la nostra esistenza; ne è il bene più prezioso, secondo solo all’amore, alla capacità di amare che a sua volta si nutre e si giustifica con la capacità di conservare e evocare i ricordi.
La memoria dunque da non perdere e da utilizzare per dare un senso di continuità alla vita, collegando passato, presente e futuro. Alcuni sostengono che la vita non abbia senso. Io credo che la vita ha senso nella misura in cui glielo vogliamo dare, con gli altri, e per gli altri in un grande, inesauribile disegno.
Grazie Mario.